un paio d'articoli che raccontano lo straordinario prosciutto crudo affumicato che si produce a Cormons.
Il sogno di D’Osvaldo: un allevamento di suini per prosciutti di qualità superiore
Un
tempo, quando la Cormons era veramente Cormons e i suoi mai smentiti
sentimenti asburgici si affidavano alle centinaia di vagoni di susine in
partenza per Vienna e le altre città dell’impero, anziché alla statua
di Massimiliano I, tuttora dominante in piazza, questa cittadina del
Friuli goriziano vantava un singolare primato. Da guinnes, se mai ci
fosse già stato. I suoi macellai, salumieri, ristoratori sapevano
infatti, da un intero prosciutto svolgere un’unica fetta, chilometrica.
Oggi quest’abilità non c’è più. Scomparve – sussurrano i nostalgici –
con l’arrivo degli italiani. Cormons vanta però lo stesso un primato
prosciutti stico: essere sede di un gioellino firmato Lorenzo D’Osvaldo.
Dei venticinque milioni di prosciutti crudi annualmente prodotti in
Italia, il laboratorio D’Osvaldo ne sforna 1500 appena: una percentuale
infinitesimale, uno zero virgola tanti zeri che la calcolatrice esita a
prendere in considerazione. Ad assorbirli, basta qualche ristorante:
come, giusto a Cormons, “Il giardinetto” degli Zoppolatti e il “Suban”
di Trieste. I privati che riescono a farsi mettere in lista ne ottengono
non più di uno all’anno e solo dopo aver giurato di non tenerlo in
cantina, dove l’umidità toglie il profumo. Un autorevole quotidiano ne
ha attribuiti quattro a Berlusconi, o meglio al suo cuoco introdotto
nell’arte della diplomazia segreta. Ma la notizia è smentita (a parole,
però, non anche a sorrisi) dall’interessato. Il quale sottolinea come a
molti clienti in gara l’uno contro l’altro venga recapitato un trancio
di prosciutto, non un esemplare intero. Figlio d’arte (il padre
macellaio si esibiva anche lui con cinquecento pezzi) D’Osvaldo è un
autentico coldiretto. Tutto deve essere fatto in famiglia: moglie
suocero, due figli. Niente manodopera estranea, con quel che costa.
Anche a rispettare questi precetti i prezzi potrebbero comunque
raddoppiare, arrivare a tremila. In questo caso, però, tutta la forza di
lavoro si concentrerebbe sul prosciuttificio: un conflitto con
l’azienda agricola che ha ben ventisette ettari, di cui cinque a vigneto
specializzato e dodici a bosco. Coltivatore di vecchio stampo,
D’Osvaldo non si rassegna a puntare tutto su una carta sola. Se, per
ironia della sorte, un anno i prosciutti dovessero venir male, a mandare
avanti la famiglia (e i figli a scuola) basterebbero le bottiglie di
Tocai, Sauvignon, Cabernet. Quanto al bosco, poi, è direttamente
funzionale ai prosciutti. Da qui provengono le robinie, o acacie che dir
si voglia, i ciliegi più o meno selvatici, l’alloro e le eventuali
altre essenze necessarie all’affumicatura dei cosci. Gestire
un’aziendina così complessa, di cui il prosciuttificio è solo il
terminale, non è agevole senza salariati. E si capisce allora perché i
prosciutti rimangono 1500 soltanto. Leggermente pressati in modo da
assumere l’aspetto di un San Daniele, pepati oltre che salati con pepe
nero indiano, i prosciutti sono affumicati sopra un camino (meglio
sarebbe chiamarlo fogolar alla friulana) a dieci metri dalla fiamma, per
due o quattro giorni a seconda del clima. Sul fuoco bolle una caldaia
con finocchio, rosmarino, erba luisa, melissa. Niente resinose.
Affumicatura non fredda ma tiepida, massimo venti gradi. In questa
atmosfera religiosa la porta della stanza sacra dove il rito si compie,
non si chiama più porta, bensì respiro. Pancetta e speck con aglio e
coriandolo (nello speck però anche il ginepro) completano la collezione
di D’Osvaldo. Il quale prosegue un sogno: allevare in proprio almeno un
centinaio di maiali per nutrirli a pascolo, barbabietole di foraggio,
zucche e pastoni. “Le cinquanta cosce che ancora oggi riesco a comprare
da qualche contadino e non da un’industria allevatrice – sospira il
Nostro –sono nettamente migliori. Certo in questo caso il prezzo del
prosciutto salirebbe. Ma quando i prezzi da collocare sono 1500 questo
non è un problema. Il problema è un altro, che tormenta
l’intervistatore. Chi sono questi fortunati che, dopo esser stati
selezionati e aver superato l’esame di abilitazione al prosciutto
dosvaldiano, sono approdati al possesso di uno dei cinquanta contadini?
Travel – Anno 8 – Nr. ½ – Gennaio/Febbraio 2005 – Pag.175
Fiera dell'Est
Poco lontano, sopra Cormòns, c'è chi la propria fortuna l'ha trovata nei
boschi. Varchi la soglia della grande casa di Lorenzo D'Osvaldo e
t'avvolge un profumo dolce e selvatico a un tempo. D'Osvaldo è l'artista
dei prosciutti leggermente affumicati: ha imparato a valorizzare quello
che in realtà sarebbe un difetto del legno di ciliegio. “Ha un basso
potere calorico. L'ideale per me: produce il fumo giusto, al di sotto
dei venti gradi di temperatura”. Ai grossi ceppi di ciliegio vengono
aggiunti fasci dall'oro e molte erbe aromatiche, inumidite con l'acqua.
“Poi, la coscia affumicata viene portata nei locali di stagionatura. E
ogni sera viene avvolta dall'aria che entra dalle finestre a monte”,
spiega D'Osvaldo, mostrando l'anfiteatro della ripida collina dietro
casa. Per dodici mesi devono maturare i prosciutti, perdendo almeno il
40 per cento del peso. E durante questa attesa hanno già un
proprietario: quasi tutti i pezzi vengono prenotati di anno in anno.