mercoledì 28 agosto 2013

La verità sulla Sopressa Vicentina

Trovando solo in rarissimi casi e quasi sempre in ambito di produzione familiare una sopressa Vicentina come si deve, mi sono chiesto quale fosse la causa all'origine di questa cattiva produzione così predominante.
Il prodotto industriale o comunque dei macellai, salvo in rarissimi casi, è di qualità scadente, con aromatizzazioni eccessive e improprie, privo di stagionatura ed addizionato da evidenti agenti chimici per il veloce indurimento in frigorifero.

La sopressa è un'altra cosa.

Parliamo di un prodotto che deve maturare per mesi non in ambienti freddi, si deve asciugare naturalmente e gradualmente e deve essere preparato con le parti nobili del mascio con la sola aggiunta di sale e pepe.
Mi son preso la briga quindi di leggere il disciplinare della "Sopressa Vicentina" che qui non linkerò per non fare pubblicità a chi non la merita.
Ma io mi chiedo: come hanno fatto questi signori ad ottenere addirittura un riconoscimento europeo?
Sulla base di quali tradizioni? e con il supporto di quali palati? quali documenti storici sono stati esibiti?

Forse è più facile inondare di aromi per coprire i conservanti e schiaffare in frigo le "sopresse" per averle pronte nel giro di poche settimane o forse anche giorni. Credo la verità sia questa.


Mondo Salame

Eccolo: una calamita, un vortice o come si dice in dialetto, un "bojo"

Questa bottega l'ha scovata Mauro D. a Piacenza, precisamente a Grazzano Visconti.

Diciamo che, guardando da fuori, non viene lasciato molto spazio all'immaginazione.

Grazie Mauro per questa testimonianza, lo inseriremo tra le "cose da fare prima di morire".


Ab






giovedì 2 maggio 2013


l'amico Luciano Dri..,  ha documentato i preparativi della sacra cerimonia di una famiglia andalusa.
Si può notare che la celebrazione è affidata al cane... che Luciano afferma chiamarsi "Luganega", ma questo è da verificare.
Ringraziando Luciano per la preziosa testimonianza, lo insigniamo del titolo di "AMICO DELLA CONFRATERNITA DEGLI OSSI DE MASCIO".

domenica 20 gennaio 2013

SOTTOSCRIZIONE DURELLO DELLA CONFRATERNITA 2013



Udite udite!
Si aprono le sottoscrizioni per il Durello annata 2012 della Confraternita degli Ossi de Mascio.


Uve provenienti da vigneti selezionati e "verificati" puntualmente negli ultimi anni e spumantizzato da un profondo conoscitore del prodotto. Metodo charmat, bassissimo livello di solfiti, niente aromi...insomma: il durello fatto per noi, per bercelo in salute e gioia del palato.

I lotti minimi sono di 60 bottiglie. Scrivetemi per informazioni aggiuntive. Le consegne sono previste per ottobre 2013.

E' l'occasione per creare un prodotto dal basso, dai consumatori, con il gusto e le preferenze di chi lo beve...copiosamente.

Abbiamo già ricevuto un paio di proposte per l'etichetta, c'è ancora tutto il tempo, se qualcuno ha idee, di proporle.


e come disse Giamberto: "il Durello è il vino più buono del mondo"

martedì 4 dicembre 2012

el baccalà

tanto io lo compro da Culata a Montegalda già fatto... e che se ciavi!

pubblico la ricetta della confraternita, si definiscono venerabili... beati loro....


Ingredienti per 12 persone:
Kg 1 di stoccafisso secco – gr. 250/300 di cipolle
1/2 litro di olio d’oliva extravergine
3 sarde sotto sale
½ litro di latte fresco – poca farina bianca
gr. 50 di formaggio grana grattugiato
un ciuffo di prezzemolo tritato
sale e pepe

Preparazione

Ammollare lo stoccafisso, già ben battuto, in acqua fredda, cambiandola ogni 4 ore, per 2-3 giorni.
Aprire il pesce per lungo, togliere la lisca e tutte le spine. Tagliarlo a pezzi.
Affettare finemente le cipolle; rosolarle in un tegamino con un bicchiere d’olio, aggiungere le sarde sotto sale, e tagliate a pezzetti; per ultimo, a fuoco spento, unire il prezzemolo tritato.
Infarinare i vari pezzi di stoccafisso, irrorati con il soffritto preparato, poi disporli uno accanto all’altro, in un tegame di cotto o alluminio oppure in una pirofila (sul cui fondo si sara’ versata, prima, qualche cucchiaiata di soffritto); ricoprire il pesce con il resto del soffritto, aggiungendo anche il latte, il grana grattugiato, il sale, il pepe.
Unire l’olio fino a ricoprire tutti i pezzi, livellandoli.
Cuocere a fuoco molto dolce per circa 4 ore e mezzo, muovendo ogni tanto il recipiente in senso rotatorio, senza mai mescolare.
Questa fase di cottura, in termine “vicentino” si chiama “pipare”.
Solamente l’esperienza saprà definire l’esatta cottura dello stoccafisso che, da esemplare ad esemplare, può differire di consistenza.
Il bacalà alla vicentina è ottimo anche dopo un riposo di 12/24 ore. Servire con polenta.

è stagione di putana




Le trippe alla vicentina



sabato 24 novembre 2012

...ancora sulla panzanese e le bistecche in genere...

se lo limitiamo ad una questione di gusti allora io non ci sto! forse il caffè senza zucchero viene preso per ragioni dietetiche? il pepe nella carbonara è un optional per chi lo gradisce?
allora! la carne della panzanese e della fiorentina vanno senza sale. bisogna gettare il cuore oltre l'ostacolo, esplorare un mondo sconosciuto, nonostante il gesto del salar la carne è scontato dalla notte dei tempi.  tentare bisogna, andare a tastoni nel buio di un sapore che non si capisce. pian piano se ne sente l'aroma, il taglio del sale è solo un ricordo. il profumo dell'arrostito penetra nel naso, il palato esplora i brandelli strappati dalla fauci del commensale meno avido. profumo e sapore esplodono e si realizza il principio: la ciccia alla toscana, alla brace per dirlo meglio, va senza sale.
l'altro stadio, se avete ancora desiderio di cose nuove, è senz'altro la spruzzatina di quel duro sangiovese, a volte chianti per i più esigenti, una spuzzatina che profuma la carne: come l'aceto 
abbraccia l'olio, il sangiovese taglia l'olocausto.
cari miei, non aspettatevi simili sensazioni con la carne del supermercato. ricerca, ricerca, 
approfondimento... 

bu


domenica 18 novembre 2012

Gemellaggio Pamojo

Gemellaggio con Giamberto e la confraternita del pamojo.

http://www.pamojo.it/Home.html

Un crudo straordinario

un paio d'articoli che raccontano lo straordinario prosciutto crudo affumicato che si produce a Cormons.




Il sogno di D’Osvaldo: un allevamento di suini per prosciutti di qualità superiore
Un tempo, quando la Cormons era veramente Cormons e i suoi mai smentiti sentimenti asburgici si affidavano alle centinaia di vagoni di susine in partenza per Vienna e le altre città dell’impero, anziché alla statua di Massimiliano I, tuttora dominante in piazza, questa cittadina del Friuli goriziano vantava un singolare primato. Da guinnes, se mai ci fosse già stato. I suoi macellai, salumieri, ristoratori sapevano infatti, da un intero prosciutto svolgere un’unica fetta, chilometrica. Oggi quest’abilità non c’è più. Scomparve – sussurrano i nostalgici – con l’arrivo degli italiani. Cormons vanta però lo stesso un primato prosciutti stico: essere sede di un gioellino firmato Lorenzo D’Osvaldo. Dei venticinque milioni di prosciutti crudi annualmente prodotti in Italia, il laboratorio D’Osvaldo ne sforna 1500 appena: una percentuale infinitesimale, uno zero virgola tanti zeri che la calcolatrice esita a prendere in considerazione. Ad assorbirli, basta qualche ristorante: come, giusto a Cormons, “Il giardinetto” degli Zoppolatti e il “Suban” di Trieste. I privati che riescono a farsi mettere in lista ne ottengono non più di uno all’anno e solo dopo aver giurato di non tenerlo in cantina, dove l’umidità toglie il profumo. Un autorevole quotidiano ne ha attribuiti quattro a Berlusconi, o meglio al suo cuoco introdotto nell’arte della diplomazia segreta. Ma la notizia è smentita (a parole, però, non anche a sorrisi) dall’interessato. Il quale sottolinea come a molti clienti in gara l’uno contro l’altro venga recapitato un trancio di prosciutto, non un esemplare intero. Figlio d’arte (il padre macellaio si esibiva anche lui con cinquecento pezzi) D’Osvaldo è un autentico coldiretto. Tutto deve essere fatto in famiglia: moglie suocero, due figli. Niente manodopera estranea, con quel che costa. Anche a rispettare questi precetti i prezzi potrebbero comunque raddoppiare, arrivare a tremila. In questo caso, però, tutta la forza di lavoro si concentrerebbe sul prosciuttificio: un conflitto con l’azienda agricola che ha ben ventisette ettari, di cui cinque a vigneto specializzato e dodici a bosco. Coltivatore di vecchio stampo, D’Osvaldo non si rassegna a puntare tutto su una carta sola. Se, per ironia della sorte, un anno i prosciutti dovessero venir male, a mandare avanti la famiglia (e i figli a scuola) basterebbero le bottiglie di Tocai, Sauvignon, Cabernet. Quanto al bosco, poi, è direttamente funzionale ai prosciutti. Da qui provengono le robinie, o acacie che dir si voglia, i ciliegi più o meno selvatici, l’alloro e le eventuali altre essenze necessarie all’affumicatura dei cosci. Gestire un’aziendina così complessa, di cui il prosciuttificio è solo il terminale, non è agevole senza salariati. E si capisce allora perché i prosciutti rimangono 1500 soltanto. Leggermente pressati in modo da assumere l’aspetto di un San Daniele, pepati oltre che salati con pepe nero indiano, i prosciutti sono affumicati sopra un camino (meglio sarebbe chiamarlo fogolar alla friulana) a dieci metri dalla fiamma, per due o quattro giorni a seconda del clima. Sul fuoco bolle una caldaia con finocchio, rosmarino, erba luisa, melissa. Niente resinose. Affumicatura non fredda ma tiepida, massimo venti gradi. In questa atmosfera religiosa la porta della stanza sacra dove il rito si compie, non si chiama più porta, bensì respiro. Pancetta e speck con aglio e coriandolo (nello speck però anche il ginepro) completano la collezione di D’Osvaldo. Il quale prosegue un sogno: allevare in proprio almeno un centinaio di maiali per nutrirli a pascolo, barbabietole di foraggio, zucche e pastoni. “Le cinquanta cosce che ancora oggi riesco a comprare da qualche contadino e non da un’industria allevatrice – sospira il Nostro –sono nettamente migliori. Certo in questo caso il prezzo del prosciutto salirebbe. Ma quando i prezzi da collocare sono 1500 questo non è un problema. Il problema è un altro, che tormenta l’intervistatore. Chi sono questi fortunati che, dopo esser stati selezionati e aver superato l’esame di abilitazione al prosciutto dosvaldiano, sono approdati al possesso di uno dei cinquanta contadini?

Travel – Anno 8 – Nr. ½ – Gennaio/Febbraio 2005 – Pag.175

Fiera dell'Est
Poco lontano, sopra Cormòns, c'è chi la propria fortuna l'ha trovata nei boschi. Varchi la soglia della grande casa di Lorenzo D'Osvaldo e t'avvolge un profumo dolce e selvatico a un tempo. D'Osvaldo è l'artista dei prosciutti leggermente affumicati: ha imparato a valorizzare quello che in realtà sarebbe un difetto del legno di ciliegio. “Ha un basso potere calorico. L'ideale per me: produce il fumo giusto, al di sotto dei venti gradi di temperatura”. Ai grossi ceppi di ciliegio vengono aggiunti fasci dall'oro e molte erbe aromatiche, inumidite con l'acqua. “Poi, la coscia affumicata viene portata nei locali di stagionatura. E ogni sera viene avvolta dall'aria che entra dalle finestre a monte”, spiega D'Osvaldo, mostrando l'anfiteatro della ripida collina dietro casa. Per dodici mesi devono maturare i prosciutti, perdendo almeno il 40 per cento del peso. E durante questa attesa hanno già un proprietario: quasi tutti i pezzi vengono prenotati di anno in anno.

LA PANZANESE

La bistecca panzanese

di Dario Cecchini
Sinceramente sono nate insieme la Toscana, la passione per la carne rossa e la poesia.
E sicuramente le migliori espressioni di queste radici sono la Bistecca Fiorentina e la Bistecca Panzanese .
Quest’ultima oggi meno nota, ma perlomeno di pari livello alla Fiorentina, è l’antica immancabile tagliata dei convivi rinascimentali.
La Bistecca Panzanese è il taglio monumentale del cuore della coscia di un manzo di selezione Cecchini. Confezionata sottovuoto e refrigerata si conserva per un mese.
Cecchini bacia una bistecca
Queste sono le regole per gustarla nel suo trionfo:
• toglierla dal frigo 10/12 ore prima della cottura
• cuocerla a brace ardente e griglia rasa, 5 minuti per lato, 15 ritta
• non usare strumenti metallici per girarla, solo palette di legno o le mani.
Servirla su un tagliere di legno tagliandola a tocchi.
Gli amanti del vero cibo divoreranno la Panzanese al naturale,
senza aggiungere niente, meditando e godendo profondamente.
Un filo d’olio extravergine e un pizzico di Profumo del Chianti sono le uniche trasgressioni concesse.
Accompagnatela con copioso vino rosso, Chianti Classico naturalmente.
Se, nonostante l’appetito, ve ne dovesse avanzare, la Bistecca Panzanese è ottima fredda preparata come un carpaccio.
Questo è quanto.
Questo non è solo cibo, è un’emozione, è mordere la vita.
NB: in buongustai ben predisposti può dare come effetti collaterali
sensazioni di estremo benessere profondo godimento fisico
stimolo a bere grandi vini rossi
risveglio degli amorosi sensi (con tutto quello che ne consegue)

sabato 27 dicembre 2008

Poenta e Osei

Bisogna lasciare gli osei in cantina per una settimana in modo che "el boton" (le interiora) si frollino. Si prepara lo spiedo con osei, lardea(fettina di lardo di cm 4x4 spessore mezzo centimetro), foglia di salvia e mascio (maiale, cubetto da 4x4x4 cm). Per il mascio si può utilizzare l'ossocollo (coppa) o lo stracueo (fondello). L'ossocollo è più morbido ma meno saporito lo straculo "gà tutti i gusti" ma è molto più stopposo.
Gli osei si cucinano allo spiedo lentamente irrrorandoli con il loro pocio. Ci vogliono 4 ore circa. Meglio se viene utilizzata legna di vite.
Vanno mangiati appena cotti e quindi se c'è qualche ritardatario... suo danno.
Il companatico va fatto con la poenta onta (polenta fritta) necessariamente croccante, altrimenti si imbeve di olio, e il contorno con radici di campo conditi con il solo aceto.

Chi ha la fortuna di accompagnarli ad un buon clinto non adulterato avrà il massimo piacere, noi di solito ci accontentiamo di innaffiarli con amarone della valpolicella. Nota bene che dell'oseleto va mangiato tutto eccetto il becco. L'usanza Sarmegana vuole che si avanzino tutte le teste e si mettano in cerchio sul piatto. Finito di mangiare si inizia il giro con un biocchiere di vino ed una testa avanzata. E' ovvio quindi che chi si prende la responsabilità di mangiare tanti osei poi dovrà sopportare una dose di vino considerevole.

Da ricordare:
Non esistono mangiatori di osei che bevono birra o altro.
Chi magnai osei non guida.
E alla fine: ogni testa on goto de vin.

BU

Poenta e Sardeon (o Scopeton)

EI sardeon o scopeton (Sardina pilchardus) deve ai Veneti l'onore di possedere un nome proprio. In italiano tale nome non ce l'ha, a meno che non lo si voglia chiamare sardina del Nord Atlantico.

Nella cucina povera dei Veneti di terraferma, assieme a renga (Aringa Clupea harengus) e bacalà (stoccafisso Gadus morrhua) costituiva il cibo che accompagnava frequentemente la polenta sia "calda" che "brustolà".

Nel Vicentino, scopeton e renga sono spesso stati oggetto di grande confusione, spesso sono stati scambiati l'uno per l'altra, grazie anche al trattamento di salatura ed affumicatura che li rende alquanto simili.
È comune credenza addirittura che l'uno sia il maschio dell' altra.

Citiamo in proposito una nota rilevata a pag. 317 del libro del prof. Terenzio Sartore di Marano Vicentino "Civiltà rurale di una valle veneta la Val Leogra : - la differenza fra renga e scopeton non è mai stata conosciuta nella nostra terra, ne l'abbiamo trovata precisata in alcun vocabolario dialettale o in altra opera di carattere locale. Lo scopeton è stato ed è creduto comunemente il maschio della renga, nonostante sia ben più piccolo. Apparirà strano a molti sapere, come è apparso inaspettato per noi trovare, dopo laboriose indagini, che gli scopetoni sono le comuni sardelle atlantiche, scelte tra le più grosse, salate e conservate come le aringhe e che sono in genere importate con il nome di English pilchard, dai Paesi che si affacciano sul Mare del Nord. Le renghe, da parte loro, si distinguono in renghe da late (le più tenere) e renghe da uvi (quelle con le uova)."

Anche se per ragioni di approvvigionamento (e per difficoltà di distinguerne il sapore) spesso si spacciano le renghe, opportunamente ripulite delle uova, per scopettoni: lo scambio non è ammissibile.

Con il nome salacca o saracca, infine, si definivano i pesci della famiglia dei Clupeidi, a cui appartiene la renga, famiglia di pesci di scarso pregio e, per lo più, conservati sotto sale ed affumicati.

Renga e scopeton, non essendo pesci che si conservano a lungo, fin dal XII° secolo vengono essiccati con sale ed affumicati, dopo essere stati sventrati e, talvolta, decapitati. Ci sono anche altri metodi di conservazione più recenti, compresa la surgelazione, ma noi ci occuperemo di quelli affumicati, così ricchi di sapore e di storia della nostra gente.

Il Paese di maggior produzione è, come per il bacalà, la Norvegia, dalla quale si riforniscono i maggiori Grossisti e Distributori italiani.

Polenta e Sardeon

Quante volte abbiamo sentito raccontare dai nostri vecchi ... "ai me tempi... quatro fete de polenta brustolà e un sardeon pica via in meso o sora la tola... ma solo pociare! Parchè, finìa la polenta, la mama fasea sparire el sardeon che, co' na scaldadina e do giosse de oio, el giovava ancora. E vanti cussì più che se podèa..."

La ricetta antica è quanto di più francescano si possa immaginare e mette in chiara evidenza l'estrema semplicità dell'ambiente in cui veniva usualmente preparata.

El sardeon va ripulito delle pinne e delle squame il più possibile e posto sulla griglia, a brace non troppo forte. Dopo la cottura, va sventrato e liberato della lisca, diviso in filetti, messo in un piatto fondo o in una casseruola (e, secondo alcuni, cosparso di prezzemolo tritato). Quindi va condito con olio d'oliva abbondante e lasciato per qualche ora (anche per qualche giorno) a riposare, per ammorbidirsi ed insaporire l'olio. Sarà infine servito con polenta brustolà (per consentire di "pociare").

Nelle moderne ricette ci si sbizzarrisce con non poche "variazioni sul tema". Per ammorbidire il pesce secco e per alleggerirne la salatura, prima di passarlo sulla griglia, c'è chi lo mette a bagno in acqua fredda, chi lo immerge per 5-7 minuti in acqua bollente e chi addirittura lo lascia immerso nel latte per un'intera notte. E’ certo però che un tempo, data la penuria del sale da cucina, i nostri vecchi si guardavano bene dall’alleggerirne la salatura con bagni d’acqua!


Ricetta: Polenta e scopeton

Ingredienti: dose per 4 persone, 2 aringhe salate o affumicate Olio d'oliva, Polenta.

Si tratta di uno dei piatti più amati dai vicentini, soprattutto da quelli che hanno softerto la triste esperienza della guerra. Davanti ai loro occhi rimane sempre la renga appesa alla trave del soffitto, una specie di miraggio inaccessibile. Una volta tolta la renga dalla trave era festa grande in famiglia e ci si riuniva tutti attorno al tavolo con le fette di polenta calda in mano pronti per l'assalto contemporaneo al piccolo e sempre poco pesce che sarebbe arrivato dal focolare con il suo abbondante pocio. Ora i tempi sono cambiato, ma vi è più di un vicentino che di tanto in tanto ama rivivere quell'assalto alla renga armato di polenta. Si tratta quindi di un piatto che, anche se caduto in disuso, è sempre piacevole e stimolante nella sua semplicità.

Squamate le aringhe con un coltellino affìlato, mondatele, lavatele e ungetele di olio usando una penna di gallina, quindi fatele cuocere sulla griglia (gradela) posta sulla brace di legna, ungendole sovente con dell'altro olio. Una volta pronte diliscatele, apritele a metà ed irroratele con abbondante olio, lasciandole riposare per un paio d'ore. Servitele poi con polenta calda. Oltre all'olio alcuni usano cospargere el scopeton con della cipolla fresca tagliata a fettine finissime. Altri cuociono le renghe, una volta unte d'olio e avvolte in robusta carta oleata, mettendole sotto la cenere calda del camino. Un ultimo sistema è quello di far bollire la renga per 5 minuti, prima di pennellarla di olio e cuocerla sulla griglia. Il pregio di questo pesce aumenta comunque dopo una prolungata permanenza nell'olio che si impregna del suo sapore e che forma il famoso pocio di cui va matta la polenta